Corte Franca

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di Palazzo Pizzini

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Il corpo di fabbrica della villa segue, nell’organizzazione, l’ideale divisione, già teorizzata da Palladio, tra ambienti di uso signorile e ambienti d’uso agricolo, affiancando al corpo principale due ambienti minori, costituiti da due torri mai ultimate, previste nel progetto iniziale. Tale progetto è infatti ricostruibile grazie ad uno degli affreschi interni della villa, dove è raffigurato il prospetto antistante il giardino, fiancheggiato da due torri, secondo un modello architettonico che può richiamarsi a quello adottato, sul territorio bresciano, in Palazzo Lechi a Montirone.

Già aggiornato alle nuove idee dell’architettura sei-settecentesca, il corpo centrale del palazzo è organizzato come semplice fronte tripartita, dalle superfici in mattone a vista e prive di decori, ad eccezione delle belle finestre disposte su tre fasce, a scandire la facciata impartendole un ritmo cadenzato e che va smorzandosi nell’ultima fascia, con le aperture quadrate dei mezzanini. Il corpo centrale, caratterizzato da un massiccio portone incorniciato dalla pietra serena, è accentuato da un elegante frontone, che spezza la linea orizzontale dei profili dell’edificio: una soluzione adottata anche in Villa Togni già Averoldi di Gussago. Come a Gussago, anche a Corte Franca la villa diviene quinta architettonica per l’ordinato giardino: dal parco, la veduta spazia sino al Lago d’Iseo, inserito nel disegno del verde circostante la villa, come ideale estensione del giardino stesso. Architettura, giardino e paesaggio si fondono in un’unica prospettiva.

Il palazzo conserva due ambienti contigui con pregevoli decorazioni di soggetto mitologico, inserite in

raffinate quadrature e invenzioni architettoniche prospettiche. Gli affreschi sono stati attribuiti ad un importante firma del panorama settecentesco, Carlo Innocenzo Carloni (1687-1775), artista di assoluto rilievo e attivissimo, tra 1708 e 1735, per ordini religiosi e casate principesche delle regioni austriache, con la collaborazione del quadraturista monzese Giacomo Lecchi.

Le due sale, dette di Bacco e di Cerere, prendono il nome dai grandi medaglioni mistilinei, rappresentanti il trionfo delle due divinità della vigna e dei campi coltivati, che ben si adattano ad evocare le eccellenze agricole prodotte nel territorio in cui la villa sorgeva, nonché il passaggio delle stagioni, dall’estate all’autunno.

Gli affreschi si arricchiscono di composizioni eleganti, caratterizzate da una solida sapienza compositiva, con poche figure poste al centro dell’ideale incrocio di due diagonali e tinte sui toni freddi del giallo, dell’azzurro e del rosa.

Passata la stanza con Cerere, si apre un ulteriore ambiente completamente dipinto, su tre pareti, con vedute di ruderi e vedute che sembrano riecheggiare il vicino paesaggio lacustre e la stessa Villa Lana, di cui il pittore immortala la veduta più amena, quella del prospetto prospiciente il giardino.