Cellatica

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di Palazzo Covi

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Privo di un prospetto in affaccio su una strada, Palazzo Covi si presenta, all’apparenza, ancora fortemente legato all’immagine della corte chiusa di stampo tardo medievale. Varcato il largo portone di ingresso, appare subito chiaro, invece, che, al suo interno, cela particolarità architettoniche che ne dimostrano il pregio storico artistico e l’aggiornamento al linguaggio architettonico mostrato da altri esempi di dimore illustri sul territorio.

Costruito con ogni probabilità nella seconda metà del XVI secolo, il palazzo deve il suo nome ai Covi, antica famiglia nobiliare forse proprietaria di un feudo a Covo, nel territorio Cremonese, che possedeva, nelle mura cittadine, una sola casa di proprietà, situata nella quadra di San Giovanni, ma registrava terreni e case padronali proprio in Cellatica, sin dal Quattrocento. Proprio il XV secolo vide la divisione della famiglia in due rami distinti, uno originato da Agostino, destinato ad estinguersi nel XVII secolo, e l’altro da Giovan Francesco, che raccolse l’eredità del primo ramo e proseguì la discendenza familiare sino alla fine del XVIII secolo.

La costruzione è forse dovuta alla personalità di Agostino Covi (nato nel 1563), penultimo erede del ramo di Agostino, di cui portava il nome, in un momento particolarmente importante per la famiglia, dato che gli eredi del secondo ramo, proprio in quegli anni, venivano ammessi nell’Ordine dei Cavalieri di S. Stefano da Cosimo I de’ Medici, Granduca di Toscana. Alla morte del figlio di Agostino Covi, Girolamo, sarà proprio il ramo di Giovan Francesco ad ereditare la proprietà di Palazzo Covi.

Non stupisce, dunque, che, in contrasto con l’aspetto esteriore del palazzo, l’interno presenti un bellissimo porticato in affaccio sul cortile, con sette arcate a tutto sesto prive di colonne, ma ricadenti su pilastri squadrati, mentre la fascia del piano superiore presenta una teoria di finestre prive di dettagli decorativi. Notevole è invece il cornicione modanato, decorato da una teoria di dentelli.

Sia i pilastri che le ghiere degli archi sono interamente decorati in bugnato, con bei profili scalati: una soluzione ampiamente adottata in Palazzo Lechi a Erbusco, e che denuncia l’attenzione della committenza alle soluzioni architettoniche adottate nelle dimore centrali della Franciacorta. Il portico, dove spicca uno stemma familiare dipinto, presenta volte in muratura a sesto fortemente ribassato, scandite da paraste che riecheggiano il profilo a bugnato dei pilastri. Il piano terreno presentava tutte le stanze d’uso personale e rappresentativo della famiglia, una serie di ambienti voltati, uno scalone che saliva al piano nobile, dove si trovava la grande galleria con decorazioni ottocentesche, forse dovute alla committenza di Camillo Pulusella, ultimo proprietario del palazzo, che, nel 1862, lo cedette alla Congrega della Carità Apostolica. Un tessuto storico che risulta oggi gravemente compromesso dalla trasformazione dello stabile a scopo residenziale, che purtroppo ha riguardato anche il giardino conchiuso.